Di legno, conico, grande meno di un pugno, da noi è detto curie, spentone compreso, il perno, grazie al quale era destinato a prillare e che un fabbro indulgente ci approntava con pochi soldi ricavandolo da una lima consunta; e poteva essere in tre modi, lana, penna e trabete, quanto dire leggerissimo, leggero e trepido nel senso quest’ultimo dell’etimo latino trepi- dus, agitato, inquieto, affaccendato/precipitoso.
L’ideale e il più era il lana, del penna ci si poteva accontentare, non così dell’ultimo, deprecabile, una disgrazia. Tutto dipendeva dalla qualità dello spentone e da come lo si ‘nzaccava (conficcava) nel curie.
Per ottenere un curie lana il perno voleva essere fatto ad arte e messo al suo posto a dovere, giusto e perpendicolare nel vertice.
A quest’ultimo scopo soccorrevano le “zeppe”, di frammenti di fuscello, sterpo, carta, ma special- mente di pizzichi di “materiale” che, biondo scuro, umidiccio e più trattabile perla sua morbidezza, a- veva per giunta il potere, così si diceva, di garantirti il non plus ultra del giocattolo.
Non -si- esitava a raccoglierne né si durava fatica a trovarne.
Lana, penna e trabete.
Com’erano precisamente e come si comportavano, a cominciare dall’ultimo per venire a ritroso al primo e più ambito.
Il trabete, detto subito, faceva spettacolo. Scagliatolo al suolo, facendone sgomitolare con uno strappo la zaiagghia, ossia la cordicella con cui lo si era avvolto strettamente a cominciare dal perno, esso si metteva a scorrazzare prillando malfermo, a saltelli e con rumore, scalciando brecciolino e granelli di terra.
Strafaceva, avresti detto,non sapendo “lui” stesso dove volesse andare (“lui”, che dava l’impressione di un ragazzotto che si fosse fatto largo per mostrare com’era bravo), e bruciava così le proprie energie.
Prillava, correva qua e là, e faceva r-r-r, rurava,sul terreno piano, pesto e compresso, e non durava. Rallentando la corsa disordjnata, di lì a non molto, difatti, era esausto, vacillava ebbro e crollava, finendo rotoloni per terra. Esanime. E non bastava al piccolo proprietario la delusione, aggiungendosi a questa le risate e i commenti dei compagni, senza tuttavia che l’umiliato se la prendesse col “materiale”, nel cui potere di favorire un comportamento più dignitoso del giocattolo si credeva, a dir vero, per meno innato amore del fingere e del fantasticare, come alle storie di Mamurco, delle paure e dello scaz- zamuredde.
Non tale da appagare del tutto ma accettabile era invece il comportamento